“È intelligente ma non si applica”: quando il problema si chiama plusdotazione

“È intelligente ma non si applica”: quando il problema si chiama plusdotazione

Plusdi Jennifer Virone

Cosa intendiamo per intelligenza? È possibile misurarla? Cosa vuol dire essere intelligenti? Questi sono degli interrogativi in parte ancora aperti e che evidenziano quanto sia complesso parlare di questo argomento. Una frase celebre di Einstein cita così: “Ognuno è un genio. Ma se si giudica un pesce dalla sua abilità di arrampicarsi sugli alberi lui passerà tutta la sua vita a credersi stupido”.

Il noto fisico tedesco e Premio Nobel ci insegna che l’intelligenza non può che essere valutata all’interno di un più ampio contesto, nel quale prendono forma e significato le abilità di ciascuno. Senza un contesto di riferimento il rischio è quello di attribuire ad altri ciò che appartiene a categorie nostre, al nostro modo di leggere ed interpretare la realtà.

Un esempio attuale può essere fatto in riferimento alla sempre più nota Giftedness: la plusdotazione. Ci si riferisce alla presenza di abilità cognitive molto superiori rispetto alla crescita fisiologica del bambino o del giovane ragazzo, ma talvolta discrepanti rispetto alle funzioni sociali ed emotive.

La peculiarità di questa situazione è che non sempre essere plusdotati corrisponde ad un alto rendimento scolastico, tant’è che si può essere molto dotati in una particolare area, come quella logico-matematica, ma manifestare delle carenze in aree afferenti, ad esempio, al linguaggio. Spesso accade anche che questi “gifted children” non riescano a raggiungere i livelli di competenze richieste dall’ambiente circostante e in questo caso si parla di “gifted underachiever”: quando le abilità superano in numero e livello quelle dei coetanei è possibile che il bambino si ritrovi a sperimentare un vissuto di noia per ciò che fa; altre volte, per la sensazione di tradire il gruppo sociale di riferimento il bambino tende a sottostimare e svalutare le proprie capacità, inibendo i comportamenti finalizzati a perseguire determinati obiettivi.

In sostanza, bambini molto intelligenti possono sembrare agli occhi degli altri capricciosi, irascibili, distratti o iperattivi, quando i loro comportamenti non vengono letti in un’ottica più ampia. Non è perciò semplice e immediato riconoscere un caso di plusdotazione e distinguere quest’ultimo da altri tipi di situazioni. Bisogna inoltre tenere presente che esistono specifiche differenze all’interno della stessa etichetta e che è quindi necessario saper differenziare i meccanismi universali, le intensità delle sintomatologie e le caratteristiche individuali. Dunque, per genitori, insegnanti e altri adulti di riferimento che si rapportano con un bambino plusdotato, o ipotizzato tale, sarebbe utile:

– Fare attenzione all’ambiente e alle circostanze in cui egli mette in atto i comportamenti apparentemente problematici;

Concedere al bambino lo spazio per esprimersi, anche se in modo inizialmente disfunzionale;

Mantenere un atteggiamento di ascolto che lo aiuti a tradurre comportamenti non verbali in un linguaggio condivisibile;

Comunicare i sentimenti sperimentati di fronte ad un comportamento inappropriato (“quando fai così io mi sento…”), anziché impartire ammonizioni colpevolizzanti (“devi smetterla di fare così”).

Queste strategie consentono di rileggere determinati atteggiamenti come sintomo di una difficoltà relazionale o di un disagio emotivo, proprio perché cogliere quali difficoltà il bambino sta sperimentando è il punto di partenza per promuovere specifiche strategie di sviluppo.

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